Da quest’anno circola in Italia, e dal 2011 negli Usa, una nuova offerta per le future mamme: un test, detto del Dna libero o del Dna fetale, che promette, con un semplice prelievo di sangue, di prevedere con certezza “quasi assoluta” la sindrome di Down e altre alterazioni cromosomiche del nascituro, senza dover ricorrere a esami invasivi come amniocentesi o villocentesi. Circola su Internet, ma viene anche proposto negli studi medici. Nel mare di proposte diagnostiche, genetiche e non, per non parlare di miracolose staminali, questo esordio è passato abbastanza inosservato.
AFFIDABILITÀ ALTISSIMA – Eppure si tratta di un test che rappresenta una novità clamorosa. Non è ancora l’esame perfetto, capace di scoprire con certezza tutte le possibili alterazioni genetiche che possono provocare malformazioni o malattie nel nascituro, che è da decenni uno degli obbiettivi della ricerca. Ma questa volta ci siamo vicini, tanto vicini da sconvolgere nel prossimo futuro le strategie sanitarie e da porre fin d’ora problemi di ordine medico, etico ed economico. L’esame in questione, che richiede un semplice prelievo di sangue materno, è in grado, ad esempio, di individuare la trisomia 21, cioè l’alterazione cromosomica che comporta la sindrome di Down (1 su 1000 nati) con il 99,5% di probabilità, più di qualsiasi altro test di screening conosciuto, con un’affidabilità vicinissima a quella degli unici esami diagnostici “sicuri”, cioè amniocentesi e villocentesi, ma senza il rischio di aborto che questi esami comportano. Lo stesso vale per le altre due trisomie più comuni, la “18” (sindrome di Edwards, 1 su 6 mila nati) e la “13” (sindrome di Patau, 1 su 10 mila), se pure con un’accuratezza minore, comunque superiore al 90%. I falsi positivi sono, a seconda degli studi, tra lo 0,1 e lo 0,5%.
COSTA OLTRE MILLE EURO – Da quest’anno anche alcuni laboratori privati italiani dispongono del kit di prelievo: da qui il materiale biologico viene spedito in uno dei pochissimi laboratori al mondo che sono per ora in grado di svolgere questa analisi. «I dati degli studi finora effettuati sono schiaccianti – dice il professor Luigi Fedele, direttore della clinica di ostetricia e ginecologia della Mangiagalli di Milano -. Siamo all’inizio di un cambiamento epocale, soprattutto per l’Italia, dove si registra una percentuale molto alta, più che negli altri Paesi, di amniocentesi e villocentesi ».
FILAMENTI DI DNA – Ma come è nato e come è stato sviluppato questo test? Fin dagli anni ‘90 gli scienziati cercavano di percorrere quella che sembrava la strada più logica: individuare nel sangue materno cellule fetali e cercare di decifrarne il patrimonio genetico. Cellule fetali sono effettivamente presenti nel flusso sanguigno, ma la loro “lettura” si rivelò assai ostica, perché occorreva estrarle, coltivarle e sottoporle a un’analisi genetica. Tali cellule si rivelarono poco adatte a questo processo, perché spesso non erano integre, perché era molto complesso coltivarle e anche perché, si scoprì successivamente, nel sangue di una madre non primipara è possibile trovare le cellule dei figli precedenti. La svolta venne nel ‘97, quando un professore cinese di Hong Kong, Dannis Lo, annunciò in un famoso articolo sulla rivista The Lancet la presenza nel sangue di filamenti di Dna libero, piccoli frammenti circolanti composti da una mescolanza di materiale genetico materno e fetale, certamente prodotti dalla gravidanza in corso. Apparentemente questa “materia prima” sembrava ancora più difficile da decifrare. E invece questa “strada laterale”, come spesso avviene nella scienza, si è rivelata molto più feconda, grazie alle tecniche di sequenziazione ed espansione del materiale genetico e soprattutto alla recente conoscenza della nostra mappa cromosomica.
CROMOSOMI ANOMALI – Si tratta di un processo assai complesso, ma in pratica si procede facendo espandere, cioè moltiplicare, i frammenti di queste piccolissime quantità di Dna che la “libreria” genetica classifica come caratteristici dei un determinato cromosoma. Dopo di che si procede a una valutazione quantitativa. La trisomia 21, responsabile della sindrome di Down, è così chiamata perché accanto ai due cromosomi 21 (i cromosomi sono sempre in coppia) ce n’è un terzo o parte di un terzo. Ecco allora che una quantità anomala di frammenti di cromosoma 21, superiore a uno standard conosciuto, segnala la sindrome di Down. Analogamente si è proceduto per le altre due trisomie, la 18 e la 13.
TEST DI SCREENING – È stato lo stesso Lo, con la sua équipe di Hong Kong, a sviluppare nell’arco di un decennio le idee e le tecniche che hanno portato alla realizzazione del test. Dopo di che è iniziata la battaglia commerciale, tuttora in corso, che ha portato alla nascita di quattro società californiane e di una cinese che si contendono un mercato che si prospetta molto lucroso. Sul piano più strettamente scientifico, una ricerca multicentrica (NICE) conclusa nel 2011, guidata dall’Università di Stanford (ma finanziata da una delle case produttrici del test), e due studi indipendenti condotti da un centro pubblico inglese guidato dal prestigioso professor Kyprios Nicolaides, hanno portato alla validazione del test da parte di molte società scientifiche, americane e internazionali. Non c’è invece alcuna approvazione da parte dell’FDA o da parte dell’Emea, perché l’esame viene considerato test di screening e non diagnostico. «Ed è giusto che sia così, questo concetto deve essere chiaro – spiega il ginecologo e chirurgo fetale Nicola Persico, della clinica Mangiagalli, che ha lavorato a Londra con lo stesso Nicolaides -. Gli unici esami diagnostici certi sono amniocentesi e villocentesi. Il che significa che se una donna risultasse positiva a uno di questi test, che sono probabilistici, dovrebbe sottoporsi all’esame per confermare la diagnosi. Tutti gli studi comunque sono per ora convincenti: manca, è tuttora in corso, un grande studio su una vasta popolazione di gestanti (non solo quelle considerate a rischio), soprattutto per chiarire la quantità di falsi positivi. Ciò detto non si può negare che siamo di fronte a un grande passo avanti, perché permetterebbe di ridurre drasticamente il numero di amniocentesi».
EVITARE IL «FAI DA TE» – «Ci sono ancora dei limiti in questo test – conclude Luigi Fedele -, perché non copre tutta la mappa cromosomica e c’è un margine di falsi positivi. È importante poi che questo, come qualsiasi esame prenatale, sia accompagnato da un colloquio, in cui vengano spiegati con chiarezza i limiti e le conseguenze di quello che si sta facendo.
(Estratto da “Il Corriere della Sera” 28/10/2013)